PRIVATE EQUITY & ELTIF

In questo ultimo anno lo strumento del private equity sembra non fermare la sua corsa verso la celebrità, imponendosi tra le soluzioni migliori per recuperare i rendimenti persi dalle obbligazioni.

Di fatto, mentre le obbligazioni hanno performance pari allo zero, il private equity permette di realizzare ritorni interessanti di medio lungo periodo.

Ma come si fa ad investire in private equity?

E’ davvero alla portata di tutti?

E come possiamo  inserirlo correttamente nel nostro portafoglio diversificato mantenendo il giusto equilibrio tra azioni e obbligazioni?
Non ci resta che vederlo insieme.

Cosa è il Private Equity

Il private equity è il processo tramite il quale società finanziarie specializzate investono in società non quotate in borsa rilevandone quote di proprietà di maggioranza o di minoranza.

In questo modo la società non quotata ottiene nuovi capitali per finanziare i propri piani di sviluppo. Dal lato opposto, la società finanziaria, ottiene la possibilità di partecipare alla crescita ed agli utili dell’azienda in cui ha investito.

Come si realizza l’investimento in Private Equity

La società finanziaria specializzata (appunto società di investimento in private equity) raccoglie il capitale dal pubblico degli aspiranti investitori (convogliandolo in un “fondo di private equity”) per poi procedere alla selezione delle aziende “target”. 

Queste aziende saranno accompagnate nel processo di crescita dalla società di private equity che nominerà amministratori e condividerà i programmi aziendali. 

Una volta realizzato il piano di sviluppo, la società di private equity rientrerà in possesso del capitale rivalutato realizzando i guadagni conseguiti (leggi l’articolo di approfondimento sul funzionamento del private equity).

Perché investire in Private Equity

Il motivo è ovvio: il private equity offre la possibilità concreta di ottenere un rendimento superiore rispetto alle attività di investimento tradizionali. Nel medio/lungo periodo infatti i fondi di private equity hanno realizzato rendimenti  superiori rispetto alle azioni:

RENDIMENTI PRIVATE EQUITY

La tabella è tratta dall’ultimo report della società di revisione KPMG ed evidenzia i rendimenti realizzati dall’investimento in private equity (IRR Lordo Aggregato) a 3, 5 e 10 anni.

La particolarità di questo asset è che, trattandosi di investimento in società non quotate, non è prevista la possibilità di disinvestimento prima della scadenza (come avviene per la maggior parte degli investimenti finanziari).

L’altra particolarità riguarda proprio la durata: il processo di selezione, di condivisione dei piani di sviluppo e di realizzo della partecipazione richiedono necessariamente tempistiche lunghe.
La durata media di questa tipologia di investimento si attesta quindi tra i 7 ed i 10 anni.

Chi può investire in Private Equity

Dalla sua nascita nella metà degli anni 40 negli Stati Uniti, il private equity è stato appannaggio dei grandi investitori viste le importanti soglie di accesso (€ 500.000).

Le revisioni normative e l’evoluzione dell’industria finanziaria oggi hanno sensibilmente allargato il pubblico dei potenziali investitori creando i cosiddetti ELTIF (European long term investment fund).
Si tratta di fondi di investimento pensati per gli investitori privati cosiddetti “retalil”. Gli ELTIF prevedono soglie di accesso che in alcuni casi partono da € 10.000.

Come e perché collocare il private equity in un portafoglio

Abbiamo detto che il private equity offre rendimenti superiori rispetto a quelli di azioni e obbligazioni a fronte di una rinuncia alla liquidabilità del proprio investimento fino alla scadenza prevista (7 – 10 anni).

Adesso cerchiamo di capire come dovrebbe ragionevolmente essere collocato questo strumento in un portafoglio strutturato che non può prescindere dall’utilizzo delle attività di investimento tradizionali.

Un recente studio della società Callan evidenzia come oggi per ottenere rendimento sia necessario farsi carico di maggior rischio.
In altre parole o si accettano rendimenti inferiori o si accettano rischi maggiori.
Questo grafico rende molto bene l’idea:

PRIVATE EQUITY AZIONI OBBLIGAZIONI

Fino al 1991 (primo grafico a sinistra) per ottenere un rendimento reale (al netto dell’inflazione del tempo) del 5% era sufficiente diversificare tra liquidità obbligazioni e azioni. 
Oggi per ottenere lo stesso rendimento reale (grafico a destra) è necessario raddoppiare l’esposizione azionaria aumentando significativamente il rischio.

Il vero punto di forza del private equity sta nella sua capacità di migliorare il profilo rischio/rendimento di un portafoglio tradizionale.

Investendo una percentuale relativamente in ELTIF che seguono le logiche del private equity si riesce ad aumentare il rendimento complessivo del portafoglio. 

In termini pratici l’aumento di rendimento è praticamente superiore all’aumento del rischio.
Trattandosi di investimento in società non quotate, il private equity non è soggetto alle oscillazioni tipiche del mercato azionario.
Quindi il capitale investito in private equity non subirà i ribassi tipici dell’investimento azionario.

Il grafico che segue mostra il rendimento di un portafoglio classico 60/40 e di un portafoglio 55/35/10 (55% azioni, 35% obbligazioni, 10% private equity)  integrato con il private equity:

ELTIF IN UN PORTAFOGLIO

L’opzione integrata con l’investimento in private equity (linea arancione) avrebbe restituito un rendimento superiore di circa 10% percentuali.
Certo, questa può sembrare un incremento di rendimento non così evidente.
A questo proposito, prima di trarre conclusioni, credo sia opportuno analizzare ciò che è stato (nei 10 anni passati) e ciò che (probabilmente) sarà (nei dieci anni a venire).

Perché considerare il Private Equity oggi

La motivazione che dovrebbe portare quantomeno a considerare forme di investimento “alternative” come gli ELTIF ed il private equity sta nel fatto che oggi la componente obbligazionaria offre rendimenti estremamente bassi.

Il grafico mostra la discesa dei rendimenti di uno degli investimenti obbligazionari più utilizzati al mondo: il titolo di stato americano:

RENDIMENTI 10 ANNI TREASURY

Da un rendimento di circa il 4% del 2011 siamo arrivati ad una soglia di circa l’ 1,5% annuo.

Cosa significa tutto ciò? 

Che la componente obbligazionaria del portafoglio (che continua a ricoprire un ruolo fondamentale e, pertanto, non deve essere eliminata!) non offre più i “generosi” rendimenti di 10 anni fa.

In altre parole nei prossimi 10 anni mancherà uno dei principali motori di rendimento dei portafogli diversificati: il rendimento obbligazionario che oggi è praticamente assente.

Da un livello così basso i tassi non potranno che risalire e in questo caso, ahimè, il rendimento della componente obbligazionaria diventerà addirittura negativo (ne spiego perché in questo video).

Come collocare il Private Equity in un portafoglio diversificato

L’utilizzo di questa asset class può contribuire a recuperare la parte di rendimento non più “garantita” dalle obbligazioni.

Idealmente inserire il private equity in una percentuale del 5-10% (in funzione del proprio profilo di rischio e del proprio orizzonte temporale)  in un portafoglio diversificato può aumentare di circa 1 punto percentuale la performance annua complessiva.

Come ha osservato un mio lettore che ringrazio, il private equity oggi sostituisce quello che un tempo era il “buono postale” che prometteva il raddoppio del capitale dopo 10 anni.

Ovviamente, in questo caso, stiamo parlando di investimento in “capitale di rischio” cioè in partecipazioni aziendali e non di un deposito garantito.

Tuttavia un corretto utilizzo di questo strumento può migliorare efficacemente il profilo rischio/rendimento del portafoglio.

Questo grafico è tratto dall’ultimo report annuale di UBS (nota banca svizzera che in materia finanziaria ha sicuramente da dire la sua) che analizza le preferenze di investimento dei “super ricchi”:

UBS GLOBAL FAMILY OFFICE REPORT

Accanto alle tradizionali attività di investimento (liquidità, azioni, obbligazioni) trova ampio spazio proprio il private equity (16%).

Certo non tutti hanno la fortuna di essere “super ricchi” ma come osservato in apertura la riforma normativa e l’evoluzione finanziaria oggi consente l’utilizzo di questo strumento a partire da soglie di € 10.000.

Vuoi approfondire le possibilità di investimento in private equity?

PRIVATE EQUITY GUIDA PRATICA

Le agevolazioni fiscali

Un’ultima considerazione:

il decreto rilancio ha introdotto importanti agevolazioni fiscali sugli investimenti in private equity.
Sostanzialmente per agevolare il processo di finanziamento e sviluppo delle aziende non quotate, chi investe in private equity focalizzati sull’investimento nel territorio nazionale beneficia dell’esenzione dal pagamento dell’imposta del 26% sui guadagni realizzati nonché dalle imposte di successione.

In altre parole i rendimenti del private equity italiano sono totalmente esentasse! (leggi la notizia).

Conclusioni

La pazienza è amara, ma il suo frutto è dolce.

Jean-Jacques Rousseau

I mercati finanziari tradizionali sono e resteranno il miglior luogo dove trovare rendimento.

Questo significa che un portafoglio “robusto” e profittevole dovrebbe essere costruito seguendo le regole di basilare diversificazione tra asset tradizionali (azioni, obbligazioni, materie prime, oro ecc..).

Tuttavia non possiamo ignorare che il contesto finanziario è profondamente cambiato rispetto al passato: le asset class tradizionali difficilmente saranno in grado di restituire i rendimenti degli ultimi 10 anni (ne spiego il perché in questo articolo).

Individuare un parte del proprio capitale a cui rinunciare per un periodo di tempo ragionevolmente lungo e destinarla a strategie “alternative” come il private equity può contribuire a recuperare parte dei rendimenti passati e, ormai, perduti.

Leggi anche:

Private debt: cosa è e come inserirlo in portafoglio;

Ma cosa sono i fondi alternativi?

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2 Comments

  1. “In questo ultimo anno lo strumento del private equity sembra non fermare la sua corsa verso la celebrità, imponendosi tra le soluzioni migliori per recuperare i rendimenti persi dalle obbligazioni.”

    Questo preambolo è agli antipodi del corretto uso dello strumento, mi spiego meglio:

    . obbligazioni da sempre sono utilizzate per la preservazione del capitale con un ritorno dal medesimo, quest’ultimo variabile in base alla solvibilità dell’emittente e dal periodo di durata dell’investimento, con obiettivo finale di conservazione;
    .private equity è la partecipazione diretta nel capitale d’impresa, anche con il controllo assoluto, in società micro e al limite in small cap, quindi prevalentemente non quotate e soggette al rischio idiosincratico della regolamentazione locale e settoriale, tipico nei mercati non regolamentati, trasparenza limitata solo agli obblighi normativi e comunque non raggiungibile all’investitore finale, che offre chiaramente una potenzialità di ritorno, solo nei casi positivi, almeno a doppia cifra, ma zero o profondamente negativo in caso sfavorevole, con obiettivo finale crescita.

    Il fatto che oggi i bond non danno ritorno dal capitale e, in molti casi di alta qualità, possono anche far perdere in modo certo parte dello stesso, non deve snaturarne il proprio ruolo:

    “Di fatto, mentre le obbligazioni hanno performance pari allo zero, il private equity permette di realizzare ritorni interessanti di medio lungo periodo.”

    Non posso sostituire lo strumento atto a conservare con un’altro che persevera la crescita estrema! Così stravolgo l’asset allocation… non deve travisare la mancanza di un prezzo quotidiano oltre che un orizzonte temporale estremamente lungo, corroborato dalla non visibilità e quel goloso mistero velato circa il dichiarato controllo societario, come se chi decide non sbaglia, sul sempre valido principio: :cosa fanno i miei soldi?”. Infatti tale clima può lasciare illudere l’investitore che il proprio denaro è vincolato da una certezza di ritorno con un premio al rischio.

    Vero così posso gestire l’emotività del cliente ed avere tempo e spazio per un suo vantaggio, ma non deve essere il punto di partenza quello della sostituzione, ma casomai di ampliare il suo campo da gioco.

    Per i contenuti tecnici della trattazione di tale strumento formulo gratulatione ad imperium tuum!

    1. Grazie per il tuo contributo Luca.
      Nell’articolo è anche specificato:

      “Cosa significa tutto ciò?

      Che la componente obbligazionaria del portafoglio (che continua a ricoprire un ruolo fondamentale e, pertanto, non deve essere eliminata!) non offre più i “generosi” rendimenti di 10 anni fa”.

      Decontestualizzare un affermazione, a volte, può stravolgerne il senso.
      Penso che il messaggio che l’articolo intende dare sia chiaro: gli asset tradizionali ( e anche le obbligazioni che oggi tutti demonizzano) devono continuare a costituire il cuore di un portafoglio “robusto”.

      Tuttavia i ritorni che ragionevolmente ci possiamo attendere per gli anni a venire saranno meno generosi rispetto a quelli del decennio appena concluso (sia per la parte azionaria che per quella obbligazionaria). Le strategie di investimento alternative servono per “implementare” la diversificazione del portafoglio e non per “sostituire” asset fondamentali come le obbligazioni.
      Tutto ciò, ovviamente, a patto che se ne comprenda il funzionamento, i rischi e le opportunità.

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