RISCHIO CONCENTRAZIONE S&P500

La ciclicità dei mercati porta con sé anche una certa ciclicità negli argomenti di maggiore discussione. Periodicamente viene posta enfasi su una presunta criticità o sulla fine dell’efficacia di una determinata strategia: la formazione di una bolla speculativa, la morte della strategia buy&hold o la fine dell’efficacia di una corretta diversificazione.

Uno dei temi su cui si è acceso il dibattito riguarda leccessiva concentrazione dei mercati azionari: oggi le sorti dell’S&P500 e dei mercati azionari sarebbero nelle mani di un elitè di società che hanno assunto un peso sempre più determinante (tanto da essere definite megacap).

In questo articolo andremo ad analizzare questa anomalia per capire quanto effettivamente possa rivelarsi fragile un mercato azionario eccessivamente concentrato.


Poche azioni rappresentano l’intero mercato

L’S&P500 è ormai considerato il mercato azionario di riferimento.
Già in un precedente articolo avevamo analizzato come le sorti della borsa americana siano determinate da un gruppo ristretto di titoli.
Una manciata di azioni ha letteralmente preso per mano l’indice azionario accompagnandolo al rialzo.

Questa eloquente grafica di JP Morgan trasmette molto bene il concetto:

Nella parte di sinistra è evidenziata la composizione dell’S&P500: le prime 10 società pesano per il 27%.
Nella parte di destra il contributo alla performance dell’S&P500: dell’8,3% di rendimento totale, il 6% è stato prodotto dalle prime 10 società (i dati si riferiscono alla fine di aprile 2023).
Questo significa che 10 singoli titoli sono i responsabili del 70% della performance globale. 

Interessante anche osservare come il ruolo di questi giganti sia progressivamente cresciuto nel corso degli ultimi 10 anni.
Questo grafico mostra l’aumento del peso delle grandi società all’interno dell’S&P500:

Nel 2013 queste società rappresentavano poco più del 5% dell’S&P500, oggi costituiscono oltre un quarto dell’intero mercato statunitense.
Apple, la società più grande, ha una capitalizzazione di mercato  (cioè il prezzo moltiplicato per il numero di azioni) pari a quella dell’intero mercato azionario inglese.

Molti iniziano a puntare il dito sulla fragilità di un mercato così concentrato che appare troppo esposto alle sorti di un gruppo ristretto di grandi leader.

Si tratta davvero di un’anomalia che dovrebbe mettere in guardia gli investitori?

Quando dovremmo essere preoccupati per l’eccesso di concentrazione?

Concentrazione: anomalia o normalità?

Senza ombra di dubbio il fatto che poche azioni guidino i movimenti dei principali indici può lasciare un po’ perplessi. Sicuramente questo dovrebbe stimolare qualche riflessione su come realizzare una corretta diversificazione.

Ma siamo davvero di fronte a uno stravolgimento dei normali equilibri nei mercati finanziari?

A ben guardare il mercato azionario statunitense (che ormai rappresenta circa il 70% del mercato azionario globale) è sempre stato caratterizzato da presenze piuttosto ingombranti.

Questa immagine mostra il peso delle prime 10 società sull’S&P500 nel corso degli anni:

La top ten dei nomi più noti ha sempre costituito una percentuale non così diversa da quella attuale.
Certo oggi siamo sui livelli più alti di sempre, ma la concentrazione del mercato azionario sembra essere una costante.
Così come è una costante il cambio di leadership: il primato di big è passato di mano sistematicamente nel corso degli anni.

Se oggi il livello di concentrazione è il più elevato dagli anni ‘80, andando ad approfondire nella storia meno recente, possiamo vedere che le prime 10 società hanno avuto anche spazi maggiori rispetto agli attuali.
Questo grafico mostra il peso delle prime 5 azioni (in celeste) delle prime 10 (in verde) e delle più grandi (in grigio) sul mercato azionario statunitense dal 1927 al 2019:

Nel lungo periodo quante sono le azioni capaci di produrre ricchezza?

Ormai tutti gli investitori e tutti gli appassionati di finanza hanno fatto propria la verità che vede le azioni come uno dei migliori strumenti per  creare ricchezza nel tempo.
Il fatto che sia così difficile raccogliere le performance che i mercati azionari creano nel tempo è, probabilmente, altrettanto risaputo soprattutto tra chi ha avviato un percorso di investimento consapevole.

Probabilmente in pochi sanno che la maggior parte delle azioni investibili offre rendimenti decisamente miseri.
Nel 2017  Hendrink Bessembinder, professore all’università dell’Arizona specializzato nel funzionamento dei mercati finanziari, ha pubblicato uno studio condotto sul mercato azionario statunitense nel periodo che va dal 1926 al 2016.
Le conclusioni sono a dir poco imbarazzanti: il 96% delle azioni esaminate non è stato in grado di superare il rendimento dei titoli di stato a breve termine.
Questo significa che la performance complessiva del mercato azionario statunitense è attribuibile al solo 4% delle azioni.

Recentemente il professor Bessembinder ha pubblicato un nuovo studio: questa volta, oltre al mercato azionario statunitense, sono stati esaminati anche i mercati globali nel periodo che va dal 1990 al 2020.
I risultati non si discostano di molto dall’esito della precedente analisi:
circa il 60% delle azioni globali restituisce rendimenti inferiori a quelli dei titoli di stato a breve termine.
Inoltre, la ricchezza prodotta dai mercati azionari globali è attribuibile al solo 2,4% delle azioni.

Pensieri liberi sul fenomeno della concentrazione azionaria

Fin qui abbiamo detto che:

  • Il fenomeno della concentrazione degli indici su pochi grandi nomi è una costante nella storia dei mercati azionari;
  • Da un’analisi di lungo periodo sono poche le azioni che guidano la corsa dei mercati.

Dove ci porta tutto ciò?

Il fatto che mercati azionari e performance siano concentrati su un gruppo ristretto di azioni vincenti non significa necessariamente che siamo prossimi a una catastrofe.
Piuttosto dovrebbe stimolare qualche riflessione in più su come organizzare la propria esposizione azionaria.

Abbiamo visto che il tema ricorrente nell’evoluzione della leadership dei mercati azionari è il “passaggio di testimone”: ciclicamente i big di oggi lasciano il posto ai titani di domani.
Non ci è dato sapere come questa “rotazione” da presente a futuro possa realizzarsi.
Potrebbe essere un passaggio relativamente lineare oppure potrebbe essere un’evoluzione più traumatica in cui il declino delle azioni più grandi trascina al ribasso l’intero mercato.
Lo strapotere delle megacap potrebbe proseguire per anni, dunque ha assolutamente senso contemplare settori e aree geografiche concentrati su questi giganti.
Tuttavia concentrare i propri portafogli su indici già concentrati potrebbe diventare una scommessa rischiosa.

Lo studio di Bessembinder sostiene che la creazione di ricchezza da parte di un numero ristretto di società è attribuibile a diverse spiegazioni, potenzialmente interagenti.
Tra queste spiegazioni, in particolare, troviamo la variazione trasversale delle dimensioni dell’impresa e la casualità.
In altre parole c’è un numero ristretto di aziende che aumenta progressivamente le proprie dimensioni creando un business profittevole facendo moltiplicare in modo esponenziale il valore di mercato delle sue azioni mentre una buona parte dei titoli “resta al palo”.
Puntando solo sui grandi nomi, l’investitore non avrà la possibilità di intercettare queste aziende minori che diventeranno i leader del futuro.

Ma, soprattutto, è bene concentrarsi sul ruolo giocato dal caso nella creazione delle performance di lungo periodo. Secondo lo studio di Bessembinder la ricchezza prodotta dai mercati è attribuibile al 2,4% del totale delle azioni.
Questo significa che, sistematicamente, l’investitore ha il 97,6% di probabilità di scegliere titoli che avranno performance deludenti.
Battere i mercati non è impossibile ma è maledettamente difficile. Così come è difficile riuscire a farlo con persistenza.
La certezza di avere messo in portafoglio quel 2,4% di azioni vincenti può essere raggiunta soltanto attraverso una capillare diversificazione (declinata per area geografica, fattori di investimento, settori).

Conclusioni

Non giocate d’azzardo. Prendete piuttosto tutti i vostri risparmi , comprate un buon titolo e conservatelo finché non sale , poi vendetelo. Se non salirà non compratelo.

Will Rogers

Abbiamo visto che la concentrazione nei mercati azionari non è necessariamente un’anomalia. 
Allo stesso tempo la storia più o meno recente ci dice che le performance azionarie di lungo periodo sono attribuibili a un numero relativamente ristretto di titoli.

La riflessione da fare, quindi, non verte tanto sulla fragilità di mercati eccessivamente concentrati quanto, piuttosto, su come avere la certezza di aver individuato i pochi titoli che guideranno le performance dei prossimi anni.
La via maestra è quella di evitare di concentrare i portafogli su specifiche aree o temi di investimento.
L’obiettivo è quello di riuscire a vincere con certezza evitando di rischiare di perdere volendo, per forza, stravincere.

Leggi anche:

Esposizione azionaria: guida alla diversificazione;

Tecnologia: il momento del riscatto;

Lo studio di McQuarrie sulle performance di lungo periodo: obbligazioni meglio delle azioni?

Diversificare con le small cap value;

Fortifica il portafoglio con l’investimento fattoriale;

Le Small Cap: piccolo è bello.

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2 Comments

  1. …un indice non può fallire, altrimenti vuole dire che il sistema economico sul quale si fonda non esiste più, quindi dopo una correzione farà sempre un nuovo massimo, pertanto nel portafoglio si devono detenere asset che replicano i singoli indici geografici globali, meglio a gestione passiva, con dei satelliti settoriali con gestione attiva. In ultimo attenzione alla differenza tra rendimento nominale e rendimento reale: 100 milioni di lire nel 1971 una ricchezza, 50.000 euro oggi meno di una retribuzione lorda annua in molti casi! Ho capito male? Buona domenica

    1. Il tema è sempre lo stesso: farsi carico di rischi fa parte della nostra vita: quando ci mettiamo alla guida, quando facciamo attività fisica, quando scegliamo un nuovo lavoro ognuno di noi si espone a rischi più o meno importanti.
      Nessuno si sognerebbe di non “correre i rischi” legati a queste banali attività.
      Eppure in ambito finanziario ancora si tende a demonizzare il rischio cercando strategie per sterilizzarlo.
      Fuggire il rischio significa avere la matematica certezza di perdere per effetto della svalutazione inflativa (o, peggio, rimanere vittima di vicende come quella di Eurovita).
      Eppure nell’ultimo anno chi ha “fuggito” il rischio si è risparmiato perdite anche a doppia cifra. Queste perdite (sempre recuperabili con un portafoglio ben costruito) sono il prezzo da pagare per ottenere rendimenti degni di questo nome capaci si difendere il capitale dalla svalutazione inflattiva.
      Imparare a conoscere il funzionamento dei mercati e delle azioni sottostanti agli indici serve per imparare a gestire efficacemente il rischio.

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