Mai come negli ultimi due anni il noioso mercato obbligazionario aveva fatto tanto parlare di sé.
Sulle obbligazioni si è abbattuta una tempesta perfetta (ahimé ancora in corso) dopo anni di relativo sereno.
Ciò che sta accadendo sul mercato obbligazionario non ha davvero nessun precedente storico. 

Quando accade qualcosa che non era mai accaduto (ipotesi alquanto frequente negli ultimi anni) parte immancabilmente la competizione dei guru dell’ “Io l’avevo detto” che dispensano analisi impeccabili e consigli e strategie per affrontare  “la nuova era”.

In questo articolo cercheremo di trovare una chiave di lettura del cataclisma che ha travolto i bond e per provare a  comprendere un mercato tanto importante quanto complesso.
Più in particolare l’obiettivo è quello di trovare la risposta a queste domande:

  • Perché le obbligazioni sono scese e continuano a scendere così tanto?
  • I soldi sull’obbligazionario sono persi “per sempre”?
  • Quanto lunga sarà l’attesa per un possibile recupero?

Per rendere più comprensibile l’argomento semplificheremo un po’ alcuni aspetti:
l’obiettivo non è certo quello di condividere un’analisi “accademica” quanto, piuttosto, portare a casa i concetti pratici e utili nell’esperienza concreta.

Il peggior bond bear market della storia

Non era mai successo prima: le obbligazioni stanno vivendo il peggior bear market della storia.
Questo grafico mostra la profondità dei ribassi  del mercato obbligazionario  (rappresentato dai titoli di stato statunitensi a 10 anni):

Fonte: Meb Faber

Mai era accaduto negli ultimi 100 anni che uno degli asset più sicuri al mondo (appunto i titoli di stato statunitensi) perdesse oltre il 15%.
Ma la parte più dura da digerire è che, al di là del duro colpo incassato, il mercato obbligazionario non accenna a riprendersi.
Il bilancio della performance dei bond si accinge a chiudersi in negativo per il terzo anno consecutivo: mai accaduto nella storia.
Questa tabella mostra il rendimento  realizzato  dalle obbligazioni (ancora rappresentate dal decennale statunitense) per ogni anno:

Con questi dati catastrofici, per qualsiasi investitore, più o meno esperto,  diventa normale porsi interrogativi: come è possibile che un asset a “basso rischio” come le obbligazioni stia scendendo così tanto, per così tanto tempo?

Facile rispondere, se facile si può dire: perché i rendimenti non erano mai saliti così tanto e così velocemente da un livello così basso.
Il concetto fondamentale da comprendere per approcciarsi correttamente all’investimento obbligazionario è la relazione (inversa)  tra rendimento e prezzo.

La relazione rendimento/prezzo

Quando parliamo di titoli di stato “sicuri” la dinamica dei prezzi è strettamente legata a quella dei rendimenti (i tassi).
I prezzi delle obbligazioni, infatti,  si muovono nella direzione opposta rispetto al rendimento.
In altre parole:

  • Se salgono i rendimenti scendono i prezzi;
  • Se scendono i rendimenti salgono i prezzi.

Prima di pensare a regole matematiche più o meno complesse, cerchiamo di comprendere la logica di questa relazione inversa.
Per rendere il concetto più comprensibile semplifichiamo un po’ le cose:
ipotizziamo di aver investito in un’obbligazione a un tasso fisso del 2% che scade tra 5 anni.
Dopo un anno i rendimenti salgono dell’1% (magari perchè le banche centrali hanno deciso di alzare i tassi).
A questo punto le obbligazioni di nuova emissione non offriranno più il 2% ma il 3% (cioè il risultato dell’aumento dell’1% sul rendimento precedente del 2%. In realtà a livello tecnico non è proprio così, ma l’importante è comprendere la meccanica sottostante).
La mia obbligazione al 2%, a questo punto, offre un rendimento inferiore rispetto a quello di mercato: nessuno vorrà investire in un’obbligazione al 2% quando le nuove offrono il 3%
Quindi, il prezzo della mia obbligazione scenderà per poter offrire uno sconto ai potenziali acquirenti in modo da renderla conveniente quanto le nuove obbligazioni (ho spiegato il concetto in questo video).
Tanto più saliranno i rendimenti, tanto più scenderanno i prezzi.
Inoltre, tanto più lunga sarà la scadenza dell’obbligazione tanto maggiore il capitale sarà bloccato a un rendimento meno vantaggioso di quello attuale.
Questo è il motivo per cui le obbligazioni a lungo termine soffrono questa dinamica molto di più rispetto alle obbligazioni a breve termine (che consentono di recuperare velocemente il capitale iniziale che potrà così essere reinvestito al rendimento “maggiorato”).

Quanto può scendere o salire il prezzo di un’obbligazione in relazione ai movimenti dei tassi?

Dopo ribassi così profondi e prolungati è possibile stimare i tempi di recupero e rendimenti di obbligazioni e fondi ed etf obbligazionari? 

Nei paragrafi successivi cercheremo di rendere l’universo dei fondi e degli etf obbligazionari un po’ più comprensibile.

Etf obbligazionari: la sensibilità ai tassi

L’impatto dei tassi sul prezzo degli etf obbligazionari, fin qui,  è stato devastante.
Questo grafico mostra il tracollo  di un etf obbligazionario euro (Ishares core euro government bond):

In poco meno di tre anni la perdita ha raggiunto il 23%.
Queste sono le caratteristiche del portafoglio sottostante:

Fonte: Ishares

Ho evidenziato la duration effettiva o durata finanziaria.
La duration misura il tempo che un’obbligazione impiega a restituire il capitale investito. (evitiamo di approfondire nello specifico il concetto ma ci basta sapere che la duration è, generalmente,  leggermente inferiore alla scadenza dell’obbligazione).
La duration è importante perché ci dice quanto il prezzo dell’etf si muoverà ogni volta che i tassi saliranno o scenderanno di 1 punto percentuale:

  • se i tassi saliranno dell’1%, il prezzo dell’etf scenderà di circa il 7%;
  • se i tassi scenderanno dell’1% il prezzo dell’etf salirà di circa il 7%.

Negli ultimi 2 anni abbiamo assistito all’effetto del rialzo dei tassi, tuttavia vale la pena ricordare che esiste anche l’effetto opposto: quello del ribasso dei tassi.
Quindi, per pura ipotesi, se i tassi dovessero scendere di 2 punti percentuale il prezzo dell’etf salirà di circa il 14% ( 2 x 7,04).

ETF obbligazionari: le due regole per stimare i rendimenti e tempi di recupero

Mantenendo una singola obbligazione fino alla sua scadenza, l’investitore può fare affidamento su un rendimento certo.
Per un etf obbligazionario la questione si complica non di poco visto che il  portafoglio sottostante non giunge mai a una scadenza effettiva:  periodicamente le obbligazioni che compongono il portafoglio vengono sostituite da nuove obbligazioni in modo da mantenere inalterata la scadenza media.

In ogni caso mantenendo in portafoglio un etf per un periodo di tempo proporzionale alla sua scadenza media, potrò stimare realisticamente il rendimento finale.
Questo è possibile perché i rendimenti delle obbligazioni sono guidati dalla matematica.
Con il passare del tempo l’impatto delle variazioni dei tassi (che abbiamo visto nel paragrafo precedente) tende a riassorbirsi e il rendimento finale si allinea al rendimento di partenza:
se investo in un portafoglio obbligazionario (tramite un etf) che ha un rendimento medio del 3,5% potrò aspettarmi di ottenere quel rendimento, purché consideri il periodo di tempo di investimento corretto.
Vediamo quindi le due regole per la stima dei rendimenti degli etf obbligazionari.

Rendimenti e tempi di recupero: la scadenza media ponderata

Un buon indicatore per quantificare il corretto periodo di detenzione di un etf obbligazionario è la scadenza media ponderata.
Questo indicatore rappresenta il periodo di tempo entro il quale le obbligazioni in cui investe l’etf giungeranno a scadenza.
Mantenendo l’etf per un periodo pari alla scadenza media ponderata potrò aspettarmi una performance pari al rendimento iniziale.
Rendimento iniziale e scadenza media ponderata  di un etf possono essere rilevati dalla scheda informativa:

Fonte: Ishares

Vediamo più nello specifico di cosa stiamo parlando.

Questa  immagine (già proposta in un precedente articolo sulla convenienza o meno a investire in etf obbligazionari)  mette  in relazione il rendimento di partenza di un etf  (in blu) che investe in titoli di stato con scadenza media 5 anni  con il rendimento effettivamente realizzato (in arancione) nell’anno successivo:

Le due linee seguono movimenti molto diversi. Questo significa che c’è una relazione molto debole tra rendimento di partenza e rendimento a un anno.
Allineando il periodo di detenzione dell’investimento alla sua scadenza media (5 anni) il rendimento ottenuto è molto più vicino al rendimento iniziale:

Le due linee sono quasi sovrapposte: detenere un etf per un periodo pari alla scadenza media delle obbligazioni sottostanti significa ottenere il rendimento di partenza.
Tornando all’etf preso ad esempio, avrò (quasi) sicuramente un rendimento annuo del 3,55% se sarò disposto a mantenerlo per 8 anni circa.

In base allo stesso ragionamento,  chi ha investito nell’etf nel corso degli anni passati, per tornare in pareggio  (e ottenere il rendimento che lo stesso etf offriva in passato) dovrà attendere l’esaurirsi della scadenza media che quell’etf presentava alla data dell’iniziale investimento.

Secondo il modello teorizzato da  John Bogle, il rendimento iniziale è un indicatore altamente affidabile per la stima delle performance future degli etf obbligazionari.
Lo studio di Bogle prende in esame il periodo che va dal 1915 al 2014 per concludere che il tasso iniziale di un portafoglio obbligazionario con scadenza costante 10 anni determina il 90% delle performance dei 10 anni successivi.

E il rimanente 10%? 
E’ influenzato da altri fattori tra cui il principale è proprio l’andamento dei tassi che abbiamo visto nel paragrafo precedente.

Rendimenti e tempi di recupero: il doppio della duration

In un contesto di tassi in rialzo, allineare il periodo di detenzione di un etf obbligazionario alla sua scadenza media potrebbe non essere sufficiente. Infatti un repentino e importante rialzo dei tassi in corrispondenza dell’esaurirsi dell’orizzonte temporale così definito potrebbe compromettere il risultato finale. 
Occorre quindi fare riferimento a una stima più conservativa.
Secondo la regola empirica teorizzata dal professore di economia Garbiel A. Lozada, il doppio della duration è l’orizzonte temporale che meglio consente di recuperare le perdite e ottenere il rendimento iniziale.
Questa regola è il risultato di uno studio  (consultabile a questo link) in cui l’autore ha testato empiricamente 60 anni di rendimenti obbligazionari:
in un contesto in cui i tassi di interesse dovessero tendere al rialzo per decenni sarebbe inevitabilmente necessario detenere un etf obbligazionario per un periodo pari al doppio della sua durata finanziaria.

Tornando quindi al nostro etf obbligazionario:

Secondo la regola del doppio della durata, per ottenere un rendimento del 3,55% annuo dovrei mantenere l’etf per circa 14 anni (7,04 x 2).
Anche in questo caso non avremo, comunque, la certezza matematica del 100% perché entrano in gioco anche altre variabili finanziarie decisamente complesse che rischiano di avere poca utilità pratica.
Se volessi fare alcune simulazioni sulla base di ipotesi di rialzo o ribasso dei tassi e impatto sui prezzi dei tuoi etf/fondi obbligazionari a questo link trovi un utile calcolatore.

contatta David Volpe

Considerazioni pratiche per l’investitore

Dopo tutta questa teoria, proviamo adesso a condividere qualche considerazione pratica:

Come ridurre i tempi di recupero

Qualsiasi asset class azionaria o obbligazionaria, per quanto affascinante,  presa a sé stante non ha nessun significato né nel breve né tantomeno nel lungo termine.
Quella stessa asset class, tuttavia, può assumere un ruolo straordinario se inserita all’interno di un portafoglio più strutturato.
Questa premessa serve per sottolineare il fatto che ha poco senso porsi domande come “dovrei  comprare etf obbligazionari?” oppure “dovrei  vendere i miei etf obbligazionari per recuperare prima le perdite?”.
Le obbligazioni erano e continuano ad essere una componente imprescindibile dei portafogli, a dispetto di tutti i guru che avevano predetto l’armageddon dei bond.

Una corretta diversificazione ha consentito di ribilanciare periodicamente il portafoglio consolidando parte dei risultati positivi su alcune asset class (materie prime, oro, bond cinesi) per incrementare quelle con performance inaspettatamente negative (come bond europei, bond  globali e azioni).
Senza aver la pretesa di centrare i massimi e i minimi, un’attività di ribilanciamento disciplinata consente di ridurre perdite e tempi di recupero purché si abbia la pazienza di perseguirla con costanza, soprattutto quando non porta risultati evidenti nel breve termine.

I modelli e gli studi accademici proposti nei paragrafi precedenti non esaminano cosa accade in caso di ribilanciamento periodico: quindi le due regole sui tempi di recupero possono, in un certo senso, essere superate diversificando e ribilanciando.

Non concentrarsi solo sul recente passato

Gli investitori (professionisti e non professionisti) comprensibilmente tendono a concentrarsi sul recente accaduto per formulare ipotesi sul futuro.
Pensare che il recente passato sia destinato a ripetersi nel futuro molto spesso porta a fare scelte di investimento errate: quando i tassi di interesse erano all’1% gli investitori compravano obbligazioni (ed etf obbligazionari) a mani basse confidando nell’inarrestabile rialzo dei prezzi.
Adesso che i rendimenti superano il 3%  (un miraggio fino a due anni fa) tutti fuggono dai bond spaventati dall’inspiegabile protrarsi dei ribassi.
Ecco che nei forum finanziari prolificano tesi  e regole ostinate per spiegare che occorreranno decenni perché i portafogli bilanciati ritrovino la luce.

Fino ad oggi abbiamo visto l’effetto negativo del rialzo dei tassi sui portafogli obbligazionari.
Ovviamente non so con certezza quanto a lungo possa protrarsi il mercato ribassista delle obbligazioni ma so, comunque, che c’è il rovescio della medaglia: le obbligazioni torneranno a svolgere il loro ruolo in portafoglio.

Abbiamo visto cosa può accadere ai prezzi in funzione di ribassi dei tassi (che prima o poi si materializzeranno).
Chi non mantiene le obbligazioni in modo strategico (cioè sistematico) in portafoglio, non ne beneficierà. Non si può pretendere di detenere un asset class solo quando sale.

Difficilmente le crisi si ripetono con le stesse caratteristiche

Gli ultimi due anni rappresentano un vero e proprio caso unico nella storia: i mercati sono improvvisamente usciti dall’anomalia dei tassi negativi inaugurata dopo la grande crisi finanziaria del 2008.
Questo è stato uno shock enorme per il mercato obbligazionario: i tassi sono saliti molto in alto, molto velocemente, da un livello di partenza eccezionalmente basso.
Il risultato è stato un ribasso prolungato e simultaneo di azioni e obbligazioni.
Vale la pena considerare che lo shock ormai c’è stato: i tassi non sono più negativi (anzi sono abbondantemente positivi).
Prendere contromisure per prepararsi alla replica di questo shock (magari con backtest che suggeriscono di eliminare i bond dal portafoglio per migliorare i rendimenti) non ha nessun senso logico.
Meglio, semmai, considerare i bond anche per il loro rendimento atteso (sulla base delle regole che abbiamo visto).

Conclusioni

Fare un portafoglio è l’ultimo dei problemi, mantenerlo è il primo

V. Bernardini

Le informazioni condivise in questo articolo hanno l’obiettivo di rendere un po’ più comprensibile il complesso mercato obbligazionario: abbiamo vissuto un periodo in cui sono vacillate molte delle certezze che in modo, più o meno critico, investitori e professionisti avevano acquisito.
Ostinarsi nel voler cercare nuove certezze in un mondo che è incerto per definizione può distoglierci dal raggiungimento dei nostri obiettivi.
Vale quindi la pena concentrarsi su ciò che possiamo controllare: la nostra asset allocation, ovvero il mix di azioni, obbligazioni e asset reali con cui abbiamo deciso di comporre il nostro portafoglio.
Al di là dei risultati più o meno deludenti del breve termine ogni asset allocation che si rispetti dovrebbe contemplare un’adeguata quota di obbligazioni costruita seguendo regole di buon senso.

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7 Comments

  1. Le considerazioni mi pare abbiano presupposto che l’etf tenga i titoli in portafoglio fino alla loro scadenza naturale. Dovesse venderli prima penso che le perdite si consolidano e stop o?

    1. Entrambi i modelli citati nell’articolo (quello di Bogle è quello di Lozada) si riferiscono a un portafoglio obbligazionario a “maturity costante”. Questo significa che i bond che lo compongono non vengono mantenuti fino alla scadenza ma vengono sostituiti per non alterare mai la durata media del portafoglio: escono le obbligazioni più prossime alla scadenza che vengono sostituite da obbligazioni “più lunghe”.
      Quindi è il caso tipico dell’etf obbligazionario.

      La vera questione, a mio avviso, ruota intorno all’uso che dobbiamo fare si questi dati: è giusto conoscerli ma hanno una rilevanza marginale per chi ragiona in ottica complessiva di portafoglio.
      Il ribilanciamento e la regressione alla media delle varie asset class ridurranno i tempi di recupero del portafoglio complessivo rendendoli più brevi rispetto a quelli delle singole asset class che lo compongono.

  2. …analisi tecnica perfetta e inebriante David! Il rendimento a scadenza lo stimolo, la duration la diagnosi del paziente, la pazienza e il rispetto dei tempi la terapia. Solo un fattore empirico non è stato esaltato nell’articolo: le spese correnti, negli etf sicuramente meno incidenti, ma nei fondi di cui sono pieni i portafogli retail, tale impatto può sensibilmente aumentare il parametro tempo, a meno che la gestione attiva, chiaramente solo nei flessibili, possa dare i risultati venduti a parole ex-ante. Buona domenica e grazie

    1. Grazie Luca!
      In ottica di semplificazione dei concetti non ho menzionato neppure il concetto di convessità che assume un importante rilevanza. 🤓
      Spero di trovare occasione per approfondirlo in un prossimo post.

  3. Davvero un gran bell’articolo. Di notevole utilità pratica. Complimenti!

  4. Buongiorno David,
    a proposito di rendimento e tempi di recupero dei bond, ti sarei grato se tu potessi chiarirmi una questione che per gli investitori potrebbe essere importante e nemmeno troppo remota:
    vista la non certo rosea situazione dell’Italia in termini di rating, qualora venisse declassata dalle agenzie di rating e i suoi titoli di stato scendessero sotto il livello investment grade, un qualunque ETF governativo focalizzato sull’area euro o anche un euro aggregate quale sorte subirebbero?
    Poiché tali ETF investono solo in titoli di livello investment grade, il gestore dell’ETF sarebbe costretto a vendere tutte le quote di bond emessi dallo Stato italiano? E in questo caso l’ETF dovrebbe sopportare una perdita consistente dovuta alla massiccia vendita dei bond italiani considerato che la quota degli stessi negli ETF governativi dell’area euro si aggira intorno al 20%?

    1. Ciao Paolo,
      senza mezzi termini un downgrade dell’Italia rappresenterebbe un cigno nero.
      Per prospetto il gestore dell’etf dovrebbe, almeno teoricamente, eliminare la quota di titoli di stato dal portafoglio sottostante. Al di là della perdita sulla vendita della quota di titoli di stato italiani, diventa difficilmente quantificabile il contraccolpo che il downgrade avrebbe sugli altri titoli di stato dei paesi periferici e non. Si potrebbe ovviare a questa problematica sostituendo la quota di governativi europei con strumenti specializzati sui paesi centrali (come la Germania). Il fatto è che non sappiamo come reagirebbe il mercato neppure nei confronti dei paesi più solidi come appunto la Germania, l’Austria, la Francia ecc…

      Personalmente credo che pensare a proteggersi da un cigno nero possa esporre a rischi che hanno una maggiore probabilità di verificarsi. Una volta diversificata l’esposizione obbligazionaria tra Europa e globale, destinata la giusta quota ad asset reali (oro e materie prime) e individuata la corretta esposizione agli asset di rischio (azioni / obbligazioni corporate), prendere ulteriori precauzioni da scenario estremo ritengo possa essere controproducente.

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