Ormai è chiaro a tutti che l’anno in corso ha colpito duramente proprio quella fetta di investitori più avversi al rischio: i portafogli concentrati su obbligazioni e titoli di stato soffrono perdite che, spesso, rasentano il 20%.
Si dice spesso che dietro a ogni crisi, dietro a ogni ribasso si nasconde un’opportunità.
E questa opportunità potrebbe essere rappresentata proprio dai titoli di stato nostrani che sono tornati a offrire rendimenti che non si vedevano da decenni.
Dopo tanta attesa il buon vecchio BTP riprende a essere un’alternativa davvero allettante: rendimento e scadenza certi al riparo dall’incertezza tipica dell’investimento finanziario.
In questo post parleremo ancora di obbligazioni e di titoli di stato per rispondere a una domanda sempre più frequente:
conviene investire in BTP oggi?
Indice
L’annus horribilis per titoli di stato e bond
Il 2022 si sta confermando un anno unico: l’indice obbligazionario global aggregate (che rappresenta l’universo obbligazionario governativo e societario) è sceso di oltre il 20% cancellando in pochi mesi 10 anni di performance.



Guardando in casa nostra un Btp con scadenza residua di 5 anni ha lasciato sul campo, più o meno, il 18%:



E pensare che molti degli affezionati al titolo di stato hanno vissuto a lungo con la convinzione che i prezzi non potessero scendere più di tanto.
Questo sarà ricordato come l’anno nero per i bond.
O, forse, come quello che ha offerto un’opportunità rara. Anzi rarissima!
Un rendimento decisamente interessante
La vistosa discesa dei prezzi dei bond ha determinato un altrettanto importante aumento dei rendimenti: visto che le quotazioni sono scese, oggi l’acquisto a sconto di obbligazioni e titoli di stato aumenta i rendimenti a scadenza (spiego il meccanismo in questo post).
Dopo anni di tassi negativi, i rendimenti tornano a farsi generosi: il Btp decennale alla data di stesura di questo post offre una remunerazione di circa il 4,5% annuo.
Questo grafico mostra la sorprendente salita dei rendimenti di un Bpt decennale:



Si tratta di un tasso decisamente attraente che ha suscitato l’attenzione di chi non ha ancora deciso come allocare i propri risparmi.
Ma soprattutto l’interesse sembra arrivare da tutti gli investitori delusi dalle performance di portafogli più o meno diversificati:
un sicuro Btp al 4,5% consentirebbe di recuperare in poco più di 2 anni la perdita del 10% riportata da un generico lazy portfolio costruito all’inizio del 2022.
Insomma il titolo di stato oggi riesce a conciliare un rendimento decente con la tranquillità di un rimborso sicuro al riparo dalla volatilità dei mercati.
Cosa potrebbe mai accadere per scardinare questa ragionevole convinzione?
Titoli di stato e CACs: la novità dal 2013
Già in un precedente articolo ho trattato la questione delle CACs (clausole di azione collettiva) che costituisce un bel grattacapo per gli amanti dei titoli di stato.
La convinzione diffusa è che gli stati non possano fallire o che, comunque, il default di una nazione sia un evento piuttosto raro.
Per la verità la storia ci racconta che le cose non vanno proprio così, comunque partiamo pure dal presupposto che il fallimento dell’Italia sia un ipotesi remota o, addirittura, irrealizzabile: resta il fatto che l’introduzione delle CACs rappresenta un aspetto di non poco conto.
Entrate in vigore nel gennaio del 2013 le Clausole di azione collettiva consentono agli stati che si trovano in una situazione di difficoltà finanziaria di rinegoziare le condizioni dei propri titoli.
Sostanzialmente una governo ha facoltà di modificare le caratteristiche dei titoli di stato in circolazione senza dichiarare default.
La norma riguarda tutti i titoli di stato europei con scadenza superiore a un anno (sono dunque esclusi i Bot).
Questo significa che, qualora uno stato europeo versi in una situazione di dissesto finanziario, può decidere di limitare il peso del debito pubblico modificando:
- La data di scadenza dei titoli in circolazione (ad esempio prorogandone la durata);
- Il tasso di interesse (ad esempio riducendo il tasso di rendimento dei titoli emessi);
- Il valore nominale (ad esempio decidendo di ridurre il valore di rimborso);
- La valuta di denominazione (ad esempio convertendo un titolo in euro in un titolo in lire).
Il testo dettagliato del decreto che ha introdotto le CACs è consultabile a questo link.
Presupposti per l’applicazione delle CACs
L’eccezione che, giustamente, si potrà fare è che il presupposto per l’applicazione delle clausole di azioni collettiva è il consenso di un’ampia maggioranza dei detentori dei titoli di stato (che rappresenti almeno il 75% dell’ammontare dei titoli in circolazione).
Oggi sembra difficile credere che il 75% degli investitori che detengono Btp si direbbe disposto ad accettare una rinegoziazione svantaggiosa dei propri bond.
Il punto è che una mancata accettazione della rinegoziazione tramite le CACs potrebbe portare a conseguenze ben più dannose: lo stato che si è visto negata la richiesta andrebbe, in tutta probabilità, incontro a un default disordinato che infliggerebbe danni ben più gravi.
Resta il fatto che il ricorso alle CACs è, senza ombra di dubbio, una decisione estrema: far valere le clausole di azione collettiva significa compromettere in modo irrimediabile la propria credibilità.
Quindi stiamo parlando di scenari decisamente improbabili.
Improbabile non significa impossibile: c’è chi ha fatto notare che “in economia e in finanza accadono continuamente cose che non erano mai accadute prima”.
Ricordo che gli elementi caratteristici del rischio sono la probabilità che si verifichi un determinato evento e il potenziale danno che ne deriva:
il rischio derivante dall’investimento nei mercati finanziari comporta oscillazioni del portafoglio frequenti e dolorose che, tuttavia, possono essere gestite con una corretta diversificazione e un corretto orizzonte temporale.
L’investimento diretto in titoli di stato con scadenza certa espone al rischio di ristrutturazione (tramite le CAC) che, per quanto altamente improbabile non può essere gestito.
L’importante è esserne coscienti.
Il vero rischio dietro le CACs
E’ bene puntualizzare che non stiamo parlando di un imminente default dell’Italia.
Il rischio non è necessariamente quello di incorrere nelle conseguenze di una ristrutturazione ma, piuttosto, quello di non riuscire a gestire correttamente il portafoglio in una potenziale fase di criticità finanziaria in cui aumentano le probabilità di applicazione delle CACs.
La crisi dell’euro del 2011 ci ha insegnato che i mercati possono essere molto severi con i conti pubblici dei paesi membri.
In quel periodo gli investitori iniziarono a porsi seri dubbi sulla sostenibilità del nostro debito avviando una massiccia svendita di BTP.
Le quotazioni crollarono di oltre il 20% e lo spread btp/bund sfondò la soglia dei 500 punti.



Al tempo le banche iniziavano a predisporre piani di emergenza per una sempre più probabile ristrutturazione del debito. I titoli della stampa specialistica evidenziavano la gravità della situazione.



Come reagirebbe l’investitore a un crollo delle quotazioni accompagnato dall’aumento della probabilità di applicazione delle CACs?
Riuscirebbe ad attendere tranquillamente il regolare rimborso a scadenza (su cui si sollevano sempre più dubbi) o (s)venderebbe la merce scontata consolidando una grave perdita?
Il futuro potrebbe essere diverso dal recente passato
Il 4,5% di un BTP decennale oggi ci sembra un ottimo tasso.
Questa percezione è il frutto della nostra abitudine ai rendimenti dell’ultimo decennio che sono stati sostanzialmente prossimi allo zero.
L’obiettivo principale dell’investimento dovrebbe essere quello di recuperare almeno l’inflazione.
Il livello dei tassi di interesse e dell’inflazione dei prossimi 10 anni sarà noto soltanto a posteriori: il 4,5% che oggi ci sembra così attraente, potrebbe alla fine rivelarsi molto più basso di quanto siamo convinti oggi (in rapporto all’inflazione di periodo).
Oggi dopo un balzo eccezionale e un ritorno sui livelli degli anni ottanta, probabilmente ci sembra ragionevole credere che l’inflazione sia un fenomeno eccezionale destinato a riassorbirsi rapidamente.
Personalmente sono convinto che i tassi di interesse e l’inflazione torneranno nella normalità velocemente. Ma né io né nessun altro può esserne esserne sicuro.
Se ciò non dovesse accadere potremo addirittura essere soltanto all’inizio di una cavalcata dei prezzi con tutte le conseguenze per il valore reale dei nostri portafogli.
Le scelte di investimento dovrebbero essere impostate il più lontano possibile dalla logica del “Secondo me accadrà questo o quello” .
Vediamo cosa significa nella pratica.
La situazione attuale viene spesso paragonata periodo degli anni 70 quando l’inflazione superò abbondantemente la soglia del 10% come mostra il grafico:



Nel 1970 il rendimento del decennale statunitense raggiunse il livello dell’8% dopo essere stato abbondantemente sotto il 4% negli anni precedenti:



In quel periodo l’S&P500 era reduce da un ribasso di oltre il 30% (dovrebbe dirci qualcosa🤔).
Probabilmente all’ora furono molti gli investitori che, estenuati dai ribassi, decisero di virare sui ben più sicuri titoli di stato: sembrava evidente la convenienza di un rendimento raddoppiato rispetto a quello degli anni precedenti.
Questi sono i risultati al netto dell’inflazione di due scelte di investimento perseguite all’epoca:
- un portafoglio banalmente diversificato 45% azioni, 45% titoli di stato e 10% oro (in rosso);
- un portafoglio investito integralmente in in titoli di stato decennali (in blu):



Per quanto quei giorni fosse allettante il rendimento, l’investimento in titoli di stato non consentì di recuperare i livelli di inflazione futura: il rendimento ottenuto fu ampiamente inferiore all’inflazione di periodo.
Nonostante le turbolenze di breve periodo, il portafoglio diversificato riuscì ampiamente a battere l’inflazione.
Dunque che fare? Comprare (solo) titoli di stato?
Conclusioni
L’impatto accidentale di eventi al di fuori del nostro controllo può sovrastare l’impatto delle azioni che intraprendiamo consapevolmente.
Morgan Housel
E’ indubbio che oggi come oggi il rendimento dei titoli di stato rappresenta un’alternativa invitante.
E’ bene essere consapevoli che rendimento certo e scadenza certa non significano eliminazione del rischio: improbabilità di un evento non vuol dire che quell’evento non potrà mai verificarsi.
Inoltre dobbiamo ammettere che non possiamo sapere con certezza quale sarà l’evoluzione futura di variabili come l’inflazione e l’andamento dei tassi.
Diversificare continua ad essere l’unica strategia possibile per difendersi dall’ignoto.
L’obbligazionario (opportunamente diversificato e ribilanciato) continua a costituire una componente imprescindibile del portafoglio.
Se può avere senso dedicare una parte marginale dei propri risparmi a titoli obbligazionari singoli (come, appunto, i Btp), pensare di sostituire integralmente un portafoglio o fondi/etf obbligazionari con titoli di stato è una scelta scellerata: equivale a sostituire un rischio gestibile (attraverso un adeguamento dell’orizzonte temporale) con un rischio ingestibile (l’eventuale ristrutturazione del debito pubblico).
A proposito di diversificazione : investire in polizze a capitale garantito (cd. “ramo I”) equivale a investire in Btp.
…compro un pericolo BTP o un rischio ETF EURO BOND che potenzialmente ha un rendimento complessivo analogo se non superiore, tra spread e flusso cedolare corrente, oltre il valore fondamentale per chi investe della DIVERSIFICAZIONE? Sottolineo la differenza pericolo e rischio come povero e meno ricco. Avere l’illusione di un potenziale 100 a data certa con pericoli nominali: CACs o DEFAULT e valore: INFLAZIONE non mi sembra una forma d’investimento per un profilo retail troppo allettante (parere personale non qualificato ndr.). Come sempre David complimenti per il tuo articolo!!! Buona domenica
Hai sintetizzato perfettamente la questione Luca!
5 anni di investimento in EMI (15% del portafoglio) che avrebbe dovuto proteggermi dall’inflazione ed invece oggi mi ritrovo con una perdita di quasi il 2%. Mi chiedo che fine hanno fatto le cedole che sono state capitalizzate per ben 5 anni… Se avessi preso un BTPS sicuramente non mi troverei con la perdita. Dal mio punto di vista per la parte risk free é meglio comprare un BTP- OAT etc.
Buongiorno Stefano,
dico spesso che nessun asset (obbligazionario euro inflation linked compreso) preso a sé stante non ha senso né nel breve né nel lungo termine ma assume un ruolo straordinario in un portafoglio diversificato e opportunamente ribilanciato.
Purtroppo amiamo semplificare ma il processo di investimento è tutt’altro che semplice: non si può pretendere di avere in ptf solo asset che performano.
Il senso dell’analisi è che il confronto non deve essere fatto tra Btp e IMI, ma tra BTP e un portafoglio diversificato che comprenda anche asset reali ( https://davidvolpe.it/golden-butterfly-portafoglio-adattato-investitore-europeo/ ).
Oggi, al netto dei ribassi del 2022, un portafoglio correttamente diversificato ha restituito un rendimento positivo al netto dell’inflazione.
Se così non è stato, c’è un errore nel processo di asset allocation da parte dell’investitore.
Puoi fare un backtest tu stesso (modificando le date): in passato avevo postato un portafoglio reale come puro esempio di diversificazione ( https://bit.ly/3DlEDmO ).
Non si tratta di inventare nulla ma di studiare statistiche storiche, regressioni alla media e correlazioni e mettere a terra un modello ispirato alle logiche di chi ha ideato i lazy portfolio.
Certo richiede tempo: lo si fa per passione o per professione.
Aggiungo che il funzionamento delle obbligazioni indicizzate all’inflazione è tutt’altro che intuitivo. Sono agganciate all’inflazione attesa e non all’inflazione corrente e, soprattutto, soffrono il rialzo dei tassi reali al pari dei bond nominali.
https://davidvolpe.it/obbligazioni-indicizzate-inflazione-protezione/
Articoli che offrono sempre buoni spunti di riflessione. Potrebbe essere interessante un articolo riguardo i fattori da considerare per la scelta della duration in un etf obbligazionario. Grazie ancora
Lo annoto in agenda Morgan! Un caro saluto